L’esercito in parcheggio

Il rettore dell’Università di Ferrara, anatomico, è un osso duro. Si è schierato contro il numero chiuso o programmato. Aumentare il numero degli studenti è il suo principale obiettivo dichiarato e recentemente ha eliminato il numero programmato a Biotecnologie con il risultato che i neo-iscritti a questo corso di studio sono passati da 71 a circa 1800. È il trionfo della democrazia universitaria (la laurea è un diritto e va esercitato) o l’affermazione di una politica populista e demagogica che ha il solo obiettivo di allargare il più possibile la base studentesca dell’ateneo ferrarese?
Partiamo da una considerazione di fatto: il numero degli iscritti nelle università italiane diminuisce anno dopo anno. Diversi fattori contribuiscono a questo fenomeno, come la riduzione della natalità, l’aumento dei costi dello studio di livello superiore (lo dimostra una recente indagine del Censis), la crescente sfiducia verso l’istituzione universitaria. A fronte di questo problema, le autorità accademiche stanno correndo ai ripari cercando di allargare l’offerta formativa offrendo corsi di studio più appetibili o attraenti (vedi Ingegneria aerospaziale a Enna!), incrementando i servizi offerti agli studenti, potenziando le campagne pubblicitarie, oppure semplicemente (come è successo a Ferrara) abolendo il numero programmato in alcuni corsi di studio. Aumentare il numero degli iscritti è la parola d’ordine! Creare un esercito di studenti è la strategia vincente! Ma chi guiderà quest’esercito? Il vero disastro, infatti, non è la carenza di studenti cui si può eventualmente porre rimedio con qualche intervento appropriato, ma quella dei docenti che in molti casi hanno raggiunto livelli di carico didattico insostenibili. Come possiamo aprire i corsi di studio a una valanga di studenti se già adesso arranchiamo nella disperata impresa di assolvere ai nostri attuali compiti didattici?
Nella recente visita dell’advisory board per la ricerca del Biometec, ho scoperto che i due colleghi stranieri (uno olandese, l’altro tedesco) hanno un carico didattico presso le università di appartenenza pari a meno della metà di quello mio. Il numero degli studenti, a parità di altre condizioni, è in tutti e due i casi inferiore a quello dell’ateneo catanese.
Il rettore di Ferrara avrà certamente considerato questo aspetto nella sua decisione di abolire il numero programmato a Biotecnologie e sono sicuro che avrà predisposto un corpo docenti adeguato all’esorbitante numero di iscritti. Ma, mi chiedo allora, come e dove troveranno lavoro 1800 biotecnologi laureati a Ferrara tra qualche anno? Sarà un esercito di ex-studenti allo sbando, alla ricerca di una collocazione che probabilmente non troveranno mai, un esercito di giovani disoccupati e disillusi che potrebbero anche arrabbiarsi perché parcheggiati dalla propria università senza possibilità di uno sbocco.

Alla ricerca della laurea (o della felicità perduta)

Leone Tolstoj scriveva che il segreto della felicità non è di far sempre ciò che si vuole, ma di volere sempre ciò che si fa. Sembra un principio di valore assoluto, da tutti condivisibile. Eppure potrebbe non applicarsi agli studenti universitari. Una recente ricerca di Sodexo, il gruppo francese che opera nel campo dei servizi alla pubblica amministrazione inclusa l’università, dimostra che gli studenti universitari si dichiarano “affaticati da carichi di lavoro troppo gravosi, assillati da problemi economici, scontenti del proprio percorso di studi, scettici sul fatto che avere una laurea li porterà a trovare lavoro”. Questo parere, badate bene, non riguarda gli studenti universitari francesi, ma quelli italiani! Ancora più inquietante è il dato che il 46% degli studenti universitari del nostro Paese è convinto di avere sbagliato corso di laurea, il 36% ha pensato seriamente di abbandonare gli studi e il 43% è scettico circa la possibilità di trovare lavoro dopo la fine degli studi.
È facile affermare che all’origine dell’infelicità dei nostri studenti contribuiscono diversi fattori, ma è certo che uno di questi è rappresentato dalla incapacità dei loro docenti di trasmettere entusiasmo. In un’aula del Complesso di Sant’Andrea delle Dame dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” ho letto la seguente iscrizione: “In quest’aula dal 1904 al 1938 Filippo Bottazzi insegnò Fisiologia entusiasmando i giovani ai misteri della vita”. Possiamo tutti dire lo stesso circa la nostra attività didattica?